Ricevo e volentieri pubblico il sommario della tesi di Alessio Sian, che si e’ laureato in Scienze e tecnologie delle coltivazioni presso la facoltà di Agraria dell’Universita’ degli studi di Perugia, e che sta ora cercando di inserirsi nel settore del vino italiano.
Se il comparto vitivinicolo sta attraversando un momento di crisi, la causa non è da ricercare nell’aspetto quanti-qualitativo del vino, bensì nella crisi economica generalizzata che sta investendo i mercati mondiali.
Una prima valutazione del mercato enologico, può essere posta in funzione dei consumi di vino che stando alle statistiche dell’Oiv, risultano essere in leggero aumento a livello mondiale, mentre sembrano diminuire seppur di poco in Europa.
Gia da cio possiamo dedurre che occorre puntare sui mercati esteri.
E ciò non significa considerare solo quelli che ormai sono altamente profittabili per le aziende italiane: quindi Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, ma soprattutto quelli che mostrano un potenziale interno.
Mi riferisco in particolar modo alla Russia, Cina, Giappone e India…
Partendo proprio dall’India, il primo dato da citare è il numero di abitanti: 1,1 miliardi di potenziali bevitori di vino: si è stimato che il 25% della popolazione tende a bere vino sempre più frequentemente da far aumentare il consumo pro-capite a 5 ml l’anno. Cifra irrisoria ma importante se si pensa alla diversità culturale indiana. Inoltre occorre far presente le liberalizzazioni attuate dal governo che hanno dato una scossa alle importazioni. Si veda a tal proposito come l’export italiano verso l’India abbia subito una variazione positiva, passando dai 92 mila € del 2000 a 1,614 mila € del 2007. Pertanto si può evincere che ci sono tutte le premesse per puntare con decisione sul mercato indiano anche se il problema maggiore rimane la scelta del canale di vendita più adeguato, vista anche la presenza di 3 principali importatori (tra cui Brindco) che detengono una quota di mercato pari al 60% e le migliori strategie di marketing da adottare.
Discorso diverso va fatto per la Russia: primo dato che serve anche a differenziare questo mercato con quello precedente è il consumo pro-capite: 6,2 litri annui. Si tratta infatti di una società molto più influenzata dalla cultura enologica occidentale ed attenta ai cambiamenti. Molto esigenti poiché prediligono vini che, generalmente, si attestano su segmenti qualitativi medio alti.
Come gia fatto per l’India possiamo individuare il dato che rende questo uno dei mercati emergenti più importanti ed interessanti per le aziende italiane: l’export italiano verso la Russia è passato dai 7 milioni di € del 2000, ai 56 milioni di € del 2007. Significativo.
Se poi pensiamo anche all’attenzione che i russi pongono alla cucina italiana questo permette di aumentare le vendite dei nostri prodotti passando per il canale HoReCa.
In poche parole si tratta di aumentare la promozione del vino italiano e tentare di “spiegarlo”alla società russa, la quale si dimostra interessata e incuriosita dai nuovi prodotti.
Unico problema può essere rappresentato dalla produzione interna, che è aumentata negli ultimi anni grazie sia all´incremento dei terreni coltivati a vigneto, che all’ammodernamento dei macchinari.
Da qui concludiamo dicendo che il segmento medio basso (sotto i 3 €) è occupato dal prodotto interno. Quindi le aziende italiane possono e devono imporsi sui segmenti immediatamente superiori dove presto concorreranno anche le stesse aziende russe, visti i passi avanti fatti dalle imprese russe.
Ed ora veniamo al Giappone. Bisogna dire anzitutto che questo è il mercato più ricco e al tempo stesso variegato che si possa trovare. Dopo un vero e proprio boom che ha interessato tutti i prodotti italiani e maggiormente il vino, c’è stato un notevole calo negli ultimi anni con una sostanziale ripresa a partire dal 2005.
Qui il consumo pro-capite è basso ma la profittabilità di questo mercato è elevatissima. Si possono trovare vini provenienti da tutto il mondo. Ed è proprio per questo che la concorrenza è spietata. Soprattutto quella derivante dalle aziende californiane e australiane che rispetto alle aziende italiane (si consideri il cambio’€/$ sfavorevole) hanno potuto offrire un prodotto ottimo ad un prezzo più basso oltre ad essere all’avanguardia in fatto di innovazione.
Dato il dinamismo di questo mercato diventa importante mettere in pratica nuove idee, con le quali stuzzicare la curiosità dei giapponesi facendoli avvicinare alla nostra cultura. Il tutto tramite un miglioramente strategie di marketing, facendo bene attenzione a privilegiare ed informare il cliente dell’appartenenza territoriale di un vino e ponendo in risalto la stretta dipendenza che questo ha con un determinato cibo.
Per finire la Cina. Mercato tutto da scoprire. E soprattutto da esplorare e conquistare.
Le stime ci indicano come l’export italiano verso la Cina sia passato da 1,3 milioni di € del 2003 ai 14,8 milioni di € del 2007.
Da segnalare le opportunità fornite dall’Expo del 2010 a Shanghai e dallo sviluppo di una città come Macao che mettono i presupposti per aumentare il wine business cinese.
Secondo stime i consumatori abituali sono 10 milioni anche se previsioni confermano un amumento al 2009 che potrebbe attestarsi a circa 100 milioni di consumatori con 750 milioni di bottiglie stappate; nel 2011 la cifra dovrebbe superare il tetto di un miliardo.
Siamo secondi solo ai francesi i quali rispetto a noi hanno saputo muoversi prima, creando una sorta di cooperazione con le stesse imprese cinesi. La produzione interna che si aggira sui 6 milioni di ettolitri annui non è in grado di soddisfare le pretese di una certa clientela cinese. Inoltre non è in grado di fornire vini di adeguata qualità, non esistendo nemmeno i presupposti per un possibile miglioramento vista la necessità di impegnare superfici per fornire cereali e non vigneti.
Di sicuro dobbiamo cercare di infiltrarci con più decisione ed intensità anche atttraverso importatori specifici solo per i vini italiani. Bisogna anche informare ed insegnare ai cinesi le caratteristiche peculiari del vino italiano, le differenza con i rivali vini francesi, scegliendo ed aumentando anche le possibilità di esposizione per il prodotto italiano. Ovvio il riferimento a fiere appositamente organizzate.
Il percorso di penetrazione commerciale in questi paesi tanto distanti dal nostro sia geograficamente sia culturalmente non è facile. Si tratta solo di riuscire a studiare le strategie migliori, cercando di privilegiare il canale dell’esportazione diretta. Occorre incoraggiare i piccoli imprenditori vitivinicoli ad intraprendere la strada dell’esportazione del proprio prodotto, magari con percorsi di affiancamento durante tutta la fase di insediamento commerciale anche alla luce di questa semplice e lampante stima diramata dal Mipaaf: tra le decisioni strategiche adottate dalle aziende vitivinicole per poter aumentare la competitività, spicca con un 71,4% la modifica del mercato di vendita.
E’ anche vero che questi potenziali esportatori avendo a disposizione un budget spesso limitato, preferiscono continuare la vendita nel mercato interno. Ma occorre tenere presente che con la progressiva liberalizzazione del mercato internazionale si determinerà una progressiva concorrenza nello stesso mercato italiano, con il rischio che le stesse piccole aziende si possano trovare in forte competizione e difficoltà.
Questo è il punto. Occorre capire che investire all’estero deve essere un rischio calcolato ed al tempo stesso un’investimento atto a far crescere la propria azienda.
Alessio Sian.
Davvero molto interessante e sono assolutamente d’accordo. Noi esportiamo in tutti i paesi citati ed abbiamo iniziato con l’India qualche anno fa ma non siamo mai riusciti a crescere. E’ un mercato davvero molto complesso e oserei dire confusionale, consiglio a chi vuole mettere un piede in quel paese di andarci di persona per coltivare delle relazioni personali con l’importatore dato che gli Indiani pongono grande attenzione alle persone dietro l’azienda.
Quello che tu dici e’ vero. Ma io sposterei l’asticella un pochino piu’ in alto; posto che siamo tutti d’accordo che l’export e’ importante per ora e per il futuro, la questione e’: vista la dimensione media delle aziende vinicole italiane, piccolissima, quali sono le strategie per muoversi sui mercati esteri? Pensate sia possibile per un azienda come la mia, che e’ gia’ abbastanza presente all’estero, dove si parla inglese, dove si vive in un contesto internazionale, ecc, prendere l’aereo ed andare a bussare alla porta di importatori cinesi e indiani? E con quali risultati?
La verita’ e’ che prima di uscire fuori casa, occorre sistemare le cose a casa propria. Ovvero: occorre che i produttori si organizzino INSIEME per promuovere i territori di origine. Cosa molto piu’ difficile, per evidenti motivi anche legati al nostro “carattere” nazionale, che andare a promuovere la singola azienda. Quello semmai viene dopo.
E’ una strada di lungo periodo, ma e’ l’unica possibile. Gia’ in UK la gente non sa cosa vuol dire Morellino, figuriamoci in India o Cina.
Da questo punto di vista io credo che, vista la situazione particolare italiana di inefficenza totale delle istituzioni che si occupano di promozione, l’unica strada sia l’associazione volontaria e privatistica delle singole aziende del territorio e la consapevolezza che occorre spendere di tasca propria per promuovere un territorio, anche a favore di chi non intende spendere nulla o lavora in malo modo.
Alcune aziende della Maremma, tra cui la mia, lo stanno facendo, scontrandosi con la realta’ degli alti costi che questo vuol dire se si vogliono fare le cose ad alto livello (ed e’ l’unico modo di farlo, e anche questo non e’ scontato), senza aiuti pubblici. Ma l’e’ dura, specialmente quando poi si vedono gettare letteralmente dalla finestra ingentissime risorse in inutili progetti fatti da inutili enti.
Questo e’ il limite principale dell’Italia come sistema, ma non dico una cosa nuova.
Risponde Alessio
Ciò che dice Gianpaolo è giusto. Prima bisognerebbe guardare al mercato interno, cercare di sfondare in Italia.
E’ anche vero che alla luce delle risposte e dei contatti avuti ultimamente con addetti ai lavori, sono sempre più convinto che in un momento come questo puntare all’estero rimane un investimento per il futuro. Direi quasi una necessità. Non un optional.
Leggendo varie riviste del settore, ho avuto modo di approfondire un concetto: quello del marketing intelligence.
Gianpaolo scrive che magari è un rischio andare in India e Cina e rivolgersi agli importatori locali.
Io credo che lo sia se non si riesce a colmare le grandi carenze di informazioni sui mercati esteri.. Quelle che abbiamo a disposizione sono incomplete e talvolta non di semplice fruibilità.
In tal senso le indagini di mercato sono fondamentali per organizzare tecniche e strategie di penetrazione in Paesi come quelli sopracitati.
Un esempio rivolto al mercato indiano: quale è la percezione del vino italiano che hanno gli indiani? quanto lo conoscono realmente?
Ritengo inoltre che sia di fondamentale importanza conoscere quali sono le strategie adottate dai nostri principali competitor. Non credo che ci sia bisogno di inventarsi nulla. Si può benissimo provare a seguire l’esempio delle aziende estere.
Ho inoltre una curiosità: esistono dei moduli informativi sull’enologia italiana da distribuire ai compratori esteri? Ovvero dei depliant in cui l’acquirente indiano (ad esempio) può venire a conoscenza dell’offerta vinicola di una precisa zona italiana…proprio per promuovere i territori d’origine (come scritto da Gianpaolo).
E sono d’accordo sul fatto che unire le forze di piccole aziende può risultare una mossa giusta (non vincente) per cercare di trovare importanti sbocchi commerciali.
Pongo anche un altro quesito: non credete che le grandi aziende italiane abbiano in questo un ruolo di prima importanza?
Chiudo con un semplice appunto riferito allo spreco di risorse pubbliche.
In Italia esistono un sacco di enti il cui fine è quello di promuovere e favorire l’internazionalizzazione d’impresa. Tanto per citare qualche nome, possiamo elencare gli enti ministeriali, camere di commercio, uffici ice, strutture finanziarie (Simest, sace, finest), la stessa UE…. Ebbene, analizzandole tutte si evince che esiste ad oggi una sovrapposizione dei servizi, una totale mancanza di coordinazione tra loro ed un’organizzazione delle iniziative ed eventi non concertati!!
Risultato? Come dice Gianpaolo spreco di risorse economiche che si ripercuotono poi sulle imprese sotto forma di disorientamento dell’imprenditore…
Penso che sia arrivato il momento di aggredire i mercati…..bisogna arrivare prima degli altri!
Ho aspettato che qualche produttore parlasse, visto che sono solo un distributore, prima di dire la mia. Mi dispiace ripetermi, fare il solone o la Cassandra. A prescindere dal fatto che la relazione di Alessio non è riportata qui integralmente, vorrei dire che allo stato dei fatti l’Italia non ha la forza economica sufficiente per imporsi sui mercati. Le organizzazioni che promuovono il vino, come il resto dell’agroalimentare italiano, sono obsolete. In primis l’ICE che bada ad organizzare la cena annuale presso le nostre ambasciate, qualche relazione farcita di dati vecchi e poco più. Buonitalia ed Enoteca italiana cosa hanno fatto negli ultimi 5 anni? Si parla tanto di Vinitaly China, di Vinitaly Russia, ma chi sa quali sono stati i risultati? Una nota rivista si è preoccupata di portare negli USA un gruppo ristretto di produttori, paganti, e gli altri?
Dobbiamo finirla di sparare i fuochi artificiali ogni tanto, dobbiamo lavorare seriamente e per primi lo devono fare i nostri governi. Ha ragione GianPaolo, che saluto, gli Indiani non conoscono l’Italia, figuriamoci la Maremma o il Morellino.
Cito un esempio: l’anno scorso Ferragamo cercava 4 partner italiani per aprire un mall a Bombay, non è riuscito a trovare nessuno e sono rimasti nella loro boutique in un grande albergo. Non mi sembra che Ferragamo sia un marchio poco noto, ma questo la dice lunga sulla situazione indiana.
Io penso che abbiamo solo bisogno di lavorare sodo con gente nuova e metodi nuovi, ma non credo che neanche questo governo sia capace di farlo.
Per essere più concreti vorrei aggiungere, stiamo parlando di vino ovviamente, ma siamo veramente sicuri che sia il vino quel prodotto chiave che riuscirà a farci entrare in un mercato? Se teniamo presente l’India come esempio, con cultura e tradizioni completamente diverse da quelle occidentali, siamo proprio convinti che circa 100000 nuovi ricchi indiani siano veramente un mercato potenziale per le nostre aziende vitivinicole? Nessuno ha pensato che metà della popolazione indiana non ha accesso all’acqua potabile e che forse ci converrebbe esportare prima l’acqua minerale che il vino?
Naturalmente è un esempio, ma serve a capire che non è automatico fare una fiera e poi vendere l’anno dopo. Forse è bene farsi aiutare dalle Università a capire gli altri popoli, magari introdurre un modello di vita occidentale attraverso il cinema o la TV, sono solo esempi banali ovviamente, ma neanche tanto se penso che le vendite di Bordeaux sono schizzate in alto da quando l’agente 007 ha iniziato a bere Chateau l’Angelus Saint Emilion.
Forse vale di più una promozione di questo tipo che spedire una comitiva di governatori, assessori e presidenti di consorzi al Columbus Day…
i nuovi mercati sono interessanti , ma come produttore devo dire che da soli non è possibile riuscire a creare una cuktura. Io sono stata tre volte in Cina , anche con buoni agganci tali che in altre situazioni avrebbero fatto ben sperare per un futuro di lavoro…bene alla domanda se si poteva cambiare nome al Brunello poichè c’era la lettera erre didifficile pronuncia per i cinesi mi sono molto scoraggita . Comuqnue ritornerò in Cina un’altra volta meglio armata con schede tradotte in Cinese e se me lochiedono forse sarò anche disposta a cambiare il nome non del vino ma del brand pur di riuscire a vendere ed ad ammortizzare i costi sin ad ora sostenuti.