Il costo della distribuzione del vino in USA e il potere dei distributori

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Fonte: camera di commercio spagnola a New York e Impact Databank
La camera di commercio spagnola ha fatto una eccellente presentazione che parla del mercato del vino americano, cui dedichiamo due post. Il primo e’ questo ed e’ concentrato su una interessante tabella che mostra come si parte da un vino venduto a 6$ la bottiglia dal produttore spagnolo al prezzo finale di $17.44 se il vino viene venduto in enoteca o addirittura di $29 se si beve al ristorante di New York. Mostreremo poi chi sono i grandi distributori di vino americani (che vi ricordo in USA sono “obbligatori”) e quali sono le loro quote di mercato.


Ma torniamo alla questione del prezzo del vino. Dunque, la tabella fornita dalla camera di commercio spagnola a New York, mette in luce in modo chiarissimo che e’ il sistema distributivo americano che determina in maniera preponderante il rincaro della bottiglia in America. La parte relativa al trasporto che potremmo immaginare essere significativa e’ invece invece irrisoria, meno di un dollaro a bottiglia sempre che spediamo il vino in lotti da 400 casse nella tratta intercontinentale. Allo stesso modo, la parte relativa alle tasse a ai dazi non e’ cosi’ significativa, si parla di 0.3 dollari per bottiglia per il vino da tavola e 1 dollaro a bottiglia per il vino spumante. Resta pero’ da vedere quali sono le tasse che invece di ricadere sulla bottiglia all’atto dell’importazione, ricadono sul distributore o venditore della bottiglia come tasse specifiche per l’attivita’ di vendita di vino.

E’ comunque chiaro che la parte del leone la fanno l’importatore, che ricarica il 30%, il distributore, che mette su un altro 30% e infine il dettagliante o il ristoratore, che, avendo poi alla fine il maggior rischio di non piazzare la bottiglia e trattando volumi piu’ bassi aumentano il prezzo del 50% e del 150% rispettivamente. Ne esce quindi un quadro dove la nostra bottiglia da 6 dollari finisce sullo scaffale dell’enoteca a 17 dollari (ma a 19 dollari se si tratta di un Cava), e in questo calcolo oltre 10 dollari sono incamerati dal sistema distributivo americano, cioe’ il 60% di quello che paga il consumatore finale. Questa quota sale addirittura a 22 dollari sul totale di 29 dollari per la bottiglia venduta al ristorante, cioe’ circa il 76% del totale.


Vediamo quindi chi sono questi distributori (che stanno in mezzo tra il dettagliante e il produttore americano, oppure l’importatore di prodotti esteri). Il leader storico e’ Southern Wine & Spirits: nel 2008 fatturava 8.3 miliardi di dollari detenendo il 19% di un mercato simato a 43 miliardi di dollari (qui credo siano inclusi non soltanto il vino ma anche altre bevande), fonte Impact Databank. La caratteristica interessante e’ la relativa invece al grado di concentrazione del mercato, che fa del mercato americano un mercato ricco: il 61% del mercato e’ in mano ai primi 10 distributori nel 2008, rispetto al 52% di 5 anni prima. Certamente i produttori di vino si trovano una controparte di tutto rispetto, quindi e’ giustificabile che il margine di distribuzione di questi operatori possa essere molto significativo…

Fondatore e redattore de I numeri del vino. Analista finanziario.

17 Commenti su “Il costo della distribuzione del vino in USA e il potere dei distributori”

  • Monica Pisciella Wineup

    Ciao Marco,
    i tuoi post sono sempre molto interessanti e questo tocca un tema a mio parere particolarmente importante e spinoso per l’intero sistema produttivo.
    Ogni tanto si sente proporre l’indicazione del prezzo sorgente in etichetta, ma la resistenza è davvero molto forte poichè come sappiamo tocca gli interessi di troppi. Ma il problema permane e sono parecchi i produttori che, soprattutto in periodo di crisi, vengono un po’ stritolati da questo sistema distributivo.
    Quali soluzioni possiamo intravvedere a tuo parere?

    Un caro saluto

  • bacca

    Ciao Monica,
    grazie del commento.

    Io sono contrario al prezzo sorgente nel vino perche’ nel vino, ancora piu’ che in altri prodotti, il prezzo sorgente e’ difficile da stabilire. Il problema e’ che una parte del prezzo sorgente e’ l’uva, il cui valore (non prezzo) deriva dal valore della vigna, che a sua volta e’ determinato dal prezzo del vino che viene prodotto dalla sua uva.
    Quindi, io penso che se chateau margaux vende a 200 euro la bottiglia, quello e’ il suo prezzo sorgente, perche’ ragionando a ritroso, il valore della terra che produce quelle uve incamera, una buona parte di quel “sovravalore”. Un altro pezzo e’ derivante dal marchio e dalla sua tradizione, un altro dall’abilita’ dei venditori e un ulteriore pezzo dalla notorieta’ dell’area di produzione.

    Detto questo, sul post in particolare, e’ evidente un concetto molto chiaro: il mondo e’ dei venditori. I soldi, in questo sistema economico (il piu’ giusto che c’e’ secondo me) li fanno soprattutto quelli che VENDONO, rispetto a quelli che producono, salvo casi molto particolari di prodotti particolarmetne esclusivi (Chateau Margaux appunto, ad esempio).

    Una soluzione ci sarebbe, ma solo una: che i produttori abbiamo maggior potere contrattuale verso la distribuzione, che in paesi come gli USA e’ molto molto forte. Quindi? Non migliaia di piccoli produttori con pochi volumi ma pochi grandi produttori. E in Italia dobbiamo ancora cominciare.

    ciao

    bacca

  • Tomaso

    Bella analisi, mi stupisce che il costo del trasporto e le accise siano cosi bassi. D’altro canto leggevo in qualche ricerca che produrre uva e quindi vino in USA ha costi significativamente più alti che in Italia. Sarebbe interessante fare un analisi competitiva Italia / Usa per capire se esistono casi in cui sugli scaffali si arriva comunque con fasce di prezzo analoghe e in tal caso se il produttore locale guadagna di più o resta semplicemente più margine alla distribuzione.

    Italia e Pochi grandi produttori? Secondo me se il settore potrebbe ristrutturarsi, non ho ancora capito però se chi fa acquisizioni le fa col fine strategico di crescere nel vino o altro…

    Ciao
    Tom

  • gianpaolo

    La domanda da porsi è se questo sistema sia meglio o peggio di quello italiano. In Italia i distributori sono molto piu’ piccoli, pochi superano i 50 milioni di euro, che contro gli 8 miliardi di Southern fa un po’ pensare. L’Italia come paese può essere paragonata ad uno Stato USA importante come la California o New York. In questi Stati Southern fattura circa 1 miliardo, ancora quindi anni luce dal distributore italiano piu’ grosso. Cosa offre Southern ai suoi clienti? Consegne rapidissime, anche una sola bottiglia in 24 ore dall’ordine, quindi un sistema logistico quasi perfetto per il cliente (ristorante o enoteca), il quale cosa offre in cambio? Pagamento a 30 gg, senza eccezioni altrimenti si va “all’inferno” dei cattivi pagatori. Li’ e’ legge in molti Stati comunque.
    Cosa offre questo sistema ai produttori? Sicuramente poco potere contrattuale, poca possibilità di discutere con tali giganti, ma d’altrondo loro non hanno come primo interesse la soddisfazione dell’azienda, ma dei clienti…
    E il produttore come puo’ cavarsela? Intanto non deve occuparsi della parte commerciale, non puo’. Quindi tutti i suoi sforzi devono essere indirizzati verso il marketing, ovvero il creare la condizione per la quale il suo vino sia richiesto dal cliente finale (e quindi su su, fino al distributore).
    E’ poi molto diverso che in Italia? Forse prima lo era, ma adesso non vedo piu’ tante differenze, tranne una: la gestione commerciale e logistica mette in grossa difficoltà tante aziende, specialmente il disastro dei pagamenti a 240, 360 gg, o a piacere. Se penso ai 30 gg USA (ma non solo) mi chiedo, non sarebbe meglio che invece di star dietro all’agente, ai pagamenti, ai corrieri piu’ inefficenti di europa e ai clienti meno precisi dell’universo, che mi concentrassi a produrre bene e creare il mio marchio?
    Quanto potra’ durare l’attuale situazione italiana?

  • Filippo Ronco

    Bellissimo Post Marco, esemplifica ancor meglio i concetti contenuti nella presentazione che ha fatto Terence Hughes a Vinix Unplugged lo scorso giugno a Genova proprio sullo stesso tema. Lui lì spiegava il perché il vino italiano di base deve costare molto poco per poter essere esportato, qui si valuta la cosa dall’angolazione opposta, cioè quella del produttore che ci guadagna poco e le due visioni si incastrano alla perfezione.

    Io credo che la vendita a prezzo sorgente non sia da scartare a priori come sistema. Naturalmente non può sostituire totalmente ogni altra forma di distribuzione, specie per aziende di dimensioni medio/grandi però risolve completamente il problema dei pagamenti e in momenti di crisi può senz’altro dare una mano. Per inciso, il prezzo sorgente che indichi per Chateau Margaux secondo me è perfetto. Il prezzo sorgente non è un prezzo basso. E’ il prezzo di partenza stabilito come giusto e soddisfacente per il produttore, tutto il resto viene dopo.

    Quello che secondo me sarebbe auspicabile è che vi fossero meno lacciuoli per i produttori di vino. Capisco le logiche commerciali e contrattuali di esclusiva e le imposizioni dall’alto ma se il distributore pensasse a fare il suo lavoro e il produttore fosse al contempo libero, dove crede opportuno farlo, di perseguire *anche* altre strade distributive – per esempio dirette – secondo me ci sarebbe più respiro.

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  • Monica Pisciella Wineup

    @Marco
    Condivido che la soluzione sarebbe maggiore poetere contrattuale verso la distribuzione, ma la nostra realtà produttiva è così frammentata…forse un passo avanti potrebbe essere rappresentato dalla volontà dei produttori di superare le divisioni ed organizzarsi in gruppi forti, almeno per le esportazioni.

    D’altro canto ero presente anch’io a Vinix Unplugged a Genova.
    In effetti mi è stato molto utile ascoltare Terence Hughes raccontare le dinamiche commerciali sul mercato US ed anche Filippo Ronco spiegare alcune motivazioni a supporto dell’indicazione in bottiglia del prezzo sorgente.

    Come in ogni cosa credo ci voglia molto più che un po’ di grano salis, poichè ogni azienda è un caso a sè. Ma forse in alcuni casi l’indicazione sulla bottiglia del prezzo sorgente, intenso come prezzo deciso dal produttore di uscita della bottiglia dalla cantina, potrebbe essere un indicazione utile per rendere i consumatori liberi di valutare se il ricarico applicato dalle enoteche e ancor più dai ristoratori sia ragionevole e a loro parere adeguato oppure no. In tal caso la volta successiva potrebbero decidere di scegliere un altro ristorante o wine shop.

    Mi rendo altresì conto che nel caso di aziende che esportano molto all’estero, probabilmente sarebbe un deterrente per molti importatori, che forse sceglierebbero di distribuire più comodamente le bottiglie che non riportano questa indicazione sull’etichetta.

  • Filippo Ronco

    Ciao Monica, solo poche righe per precisare che non ho mai richiesto l’applicazione del prezzo sorgente in etichetta. E’ una strada che si è già dimostrata fallimentare considerato che anche chi l’ha intrapresa ha poi desistito nel tempo. No, mi accontenterei dell’affermazione dell’esistenza di questo prezzo e del suo valore come punto di riferimento originario di un processo produttivo. Che poi tutti gli altri guadagnino quello che devono, senza alcun problema ma almeno si sa da dove si è partiti.

    Con TigullioVino, da sempre, di impegnamo ad indicare i due prezzi nelle nostre schede vino. Quello sorgente (o horeca iva inclusa senza scontistiche particolari per quantità), utile per i professionisti che ci leggono e quello medio in enoteca, da noi calcolato con un ricarico medio del 45% sul prezzo ivato (già generoso), per i lettori appassionati. Per me è proprio anche una questione di informazione e trasparenza anche se adesso mi si dirà che per altri millemila prodotti nessuno vuol sapere il prezzo di fabbrica… risponderei, peggio per chi non vuol sapere.

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  • bacca

    Il dibattito e’ molto interessante.

    Io ribadisco la mia posizione riguardo al fatto che il prezzo sorgente non debba essere menzionato, cosi’ come non c’e’ scritto su una mozzarella a quanto viene venduta dalla Vallelata oppure su una maglietta Lacoste a quanto esce dal produttore.

    La mia visione e’ piu’ semplice: esiste un prezzo per tutto, definito dalla domanda e dall’offerta. Quindi il prezzo di un vino lo fa il mercato.
    Fatto questo prezzo si va a ritroso e questo prezzo viene spaccato tra dettaglianti, distributori, importatori, lo Stato (con l’IVA e tutte le tasse), il produttore del vino ed, eventualmente, il proprietario della terra dove cresce l’uva.
    Ciascuno si prende la sua fetta non in base a principi di giustizia divina, non in base a regole predefinite di ritorni sul capitale ma in base alla forza che ciascuno di questi ha nei confronti di chi viene prima e dopo nella catena.

    Ora, se questo e’ come succede, e io credo che questo sia come succede, e analizzo la flessibilita’/rigidita’ delle varie forze in campo, se io sono un piccolo produttore, diciamo Gianpaolo di Poggio Argentiera, e mi metto sul mercato americano, mi accorgo che i distributori e gli importatori sono critici e “obbligatori”, cosi’ come i ricarichi del dettagliante (dello Stato non parliamo), quindi non mi resta che agire sull’ultima ruota del carro cioe’ il consumatore. Cerco di fargli capire che il mio vino e’ buonissimo e “good value”, cosi’ magari il prossimo anno lo vendo a $1 in piu’, e so che essendo la mia quota nella torta il 34%, ne ricavero’ 0.30cents in piu’.

    Se invece sono Constellation Brands, che rappresenta una buona fetta delle vendite del mio caro distributore americano, beh, allora forse il signor Sands (CEO di CB) puo’ pensare di andare a bussare alla porta del distributore e dirgli: senti, io ti do tutto il mio business, ma tu mi fai un ricarico un po’ piu’ basso oppure tu mi finanzi una parte dei costi di marketing. E cosi’ CB ha fatto, ha preso un distributore, gli ha messo in mano tutto il business, in cambio di miglior gestione delle scorte e, scommetto, una fettina di torta piu’ significativa.

    Tornando a bomba: CONSOLIDAMENTO. I produttori italiani devono guadagnare potere contrattuale nei confronti della distribuzione, devono associarsi/fondersi/comprarsi a vicenda. GIV dovrebbe diventare un’azienda da 1 miliardo di euro, non una da 300 milioni che deve dare indietro i margini alle cooperative socie! In Italia i produttori sono piccoli e fragili e fronteggiano un sistema distributivo italiano dove la GDO e’ gia’ consolidata e, all’estero, una distribuzione all’ingrosso dove il piu’ grande dei distributori italiani verrebbe dato per disperso.

    bacca

  • Monica Pisciella Wineup

    Chiedo innanzi tutto scusa a Filippo ed ai lettori per la mia imprecisione.
    Condivido il desiderio di trasparenza e di informazione, anche perchè credo che i consumatori non possano che trarne benefici.

    Non nascondo inoltre che l’errore in cui sono caduta in merito all’indicazione del PS in etichetta deriva dalla mia convinzione che chi vende principalmente sul mercato interno, a maggior ragione su scala principalmente regionale, forse potrebbe trarne vantaggio, soprattutto nel caso di chi ricarica n volte il prezzo del vino, con enorme danno dei produttori e dei consumatori.

  • Monica Pisciella Wineup

    Mentre si caricava la mia precedente risposta ho visto il nuovo commento di Marco.
    Certo che il CONSOLIDAMENTO è importante! Anzi forse in alcuni casi questione di sopravvivenza dal punto di vista economico.
    Nel quotidiano si vedono produttori vinicoli che non guadagnano anzi quando va bene lavorano in pareggio. Credo la regione in molti casi sia proprio la dimensione, l’impossibilità a raggiungere numeri e massa critica necessari ad ottimizzare il processo produttivo e distributivo, per non parlare delle carenze in aspetti commerciali (agenti inclusi).

    Un caro saluto

  • Filippo Ronco

    Una sola nota.
    Non ci sono, ad oggi, recensori di magliette. Se ci fossero critici di magliette probabilmente si parlerebbe anche di prezzi e probabilmente si parlerebbe anche di prezzi all’origine. E’ solo un caso, voglio dire, che si parli di prezzo sorgente per il vino e non per altro. Ogni prodotto ha un mercato diverso secondo me. Prendi l’olio extravergine di oliva. Perché le vendite sono quasi interamente fatte per via diretta? Forse i prodotti agricoli vivono una vita diversa dai prodotti industriali, forse l’imprevedibilità della natura che in agricoltura (nel vino più che mai) ha un impatto così forte incide su questo essere particolare del prodotto vino rispetto ad altri prodotti.

    Resto dell’idea che se mi fosse data la possibilità di conoscere il prezzo sorgente di una maglietta lacoste per prima cosa proverei ad approvvigionarmi direttamente al prezzo di produzione, in secondo luogo, se non ci riuscissi ma volessi comunque comprarla, potrei avere un’idea sui ricarichi di filiera.

    Fil.

  • Tomaso

    @Filippo: Non ci sono critici di magliette, ma ci sono critici di moto, di auto e di qualunque altro bene che attraversa la catena della commercializzazione classica. In realtà poi ci sono anche i critici di vestiti, solo che più che parlare del valore parlano del bene in se e magari dicono se gli è piaciuto o meno. – es. riviste di moda – Se vogliamo stare nell’alimentare basta prendere i gelati, le brioches o i panettoni, i salumi, le carni e chi più ne ha più ne metta. La società moderna, giusta o sbagliata che sia, divide la produzione dalla commercializzazione e spesso vede proprietà distinte. A volte anche in grande distribuzione si assiste ad una separazione tra i centri d’acquisto, che acquistano magari per più catene (es coop/ipercoop) dei beni. Eppure non trovi mai il prezzo sorgente dei beni che trovano collocazione nella catena di commercializzazione di cui stiamo parlando. Ci sono dei giornali con i prezzi all’ingrosso, rilevazioni di mercato. Ma quelli ci sono anche per i vini sfusi…e lì ci sarebbe già da fare riflessioni, per i consumatori attenti. Il motivo a mio modo di vedere è abbastanza semplice: se per il produttore il prezzo sorgente è il prezzo di vendita per il venditore rappresenta il costo d’acquisto di un bene che poi verrà ricaricato per essere rivenduto. Ove questo venga divulgato mostra al pubblico, ma soprattutto ai concorrenti, le marginalità con cui si muove l’azienda sul singolo prodotto. Ora a mio modo di vedere questa si che è una informazione sensibile. In più è un informazione che non aiuta affatto a semplificare il mercato, perchè ognuno di noi è abituato a dare un valore alle cose per quello che costano e per riferimenti paralleli a beni simili: quanti, culturalmente parlando, sono abituati a confronti di marginalità e a calcoli di costi generali? A giudicare dalle reazioni che si incontrano quando le persone sanno che le enoteche raddoppiano il costo di ingresso, pochi. Eppure è difficile dire che è giusto o sbagliato, finchè non ci si trova a fare l’enotecaro o il ristoratore, che oltre all’affitto e alle tasse devono camparci e dare un servizio al cliente che va ben oltre il mestiere del porgitore.
    Lo stesso dicasi per i supermercati, che in quel caso hanno costi da mantenere e devono anche dare un senso ai soldi investiti dai soci. E investire, perchè i loro concorrenti altrimenti li sorpassano.
    Che le vendite dell’olio extravergine “sono quasi interamente fatte per via diretta?” non mi risulta. Anzi, hai preso un mercato (parliamo di Italia) dove la parte del leone la fa la gdo. Peraltro nell’olio ci sono dei colossi, molto più grandi del vino, tipo Unilever che oltre ad essere grande ha pure un portafoglio ben diversificato per approcciare con tranquillità le negoziazioni con i buyer.

  • Filippo Ronco

    Quanto così brillantemente esponi è corretto, non farebbe una piega se non fosse per il fatto che una parte del mondo della produzione (piccolo, ininfluente, sgangherato, fuori dal mondo, chiamalo come vuoi) ha deciso di vendere (unicamente o in parte) direttamente il proprio prodotto. Chi ha la possibilità di cogliere questa opportunità la coglie. Non mi sembra ci sia da ricamarci molto su.

    E poi, permettimi, la società moderna non è un monolite immodificabile. Ci sono iniziative alternative e parallele allo schema di distribuzione classica che stanno emergendo in modo sempre più pervasivo e che sembrano avere successo.

    La complicazione del processo di vendita, cioè tutto quello che sta tra il produttore e il consumatore, può essere un servizio irrincunciabile in alcuni casi ma può anche essere un passaggio di mano evitabile. Ti porto l’esempio della pubblicità online: se una grande azienda, anziché passare per un’agenzia, risolvesse la pianificazione pubblicitaria internamente, potrebbe risparmiare un mucchio di soldi d’intermediazione da reinvestire sulla pianificazione stessa.

    Si tratta semplicemente di organizzarsi per fare questo ma è un po’ quello che fanno tanti produttori che per esempio consegnano direttamente il loro vino. Non uniformerei tutto sotto la logica dello schema da te indicato, come al solito e per fortuna, ci sono tante gradazioni di grigio.

    Fil.

  • Tomaso

    Fil, secondo me quella parte del mondo di cui fai cenno tu non è da sottovalutare, anzi. Io ne faccio parte! Solo, la terrei distinta dalle masse, proprio perchè la società è fatta di mille sfumature, più che cercare di farla diventare una regola generale sarebbe da far capire a chi ha in mano piccole perle. Cosa voglio dire: bisogna fare delle scelte, o si punta a crescere nei numeri e allora si decide con chi e come (e non è detto che celo si possa permettere) oppure va benissimo fare tutto da soli, ma è fondamentale non prendersi in giro e rendersi conto che si arriva fino ad un certo punto. Es un piccolo produttore che voglia vendere direttamente è inutile che si attrezzi per fare dei grossi volumi, piò tranquillamente andare avanti giorno dopo giorno con il passaparola e alimentare la crescita, basta stare in equilibrio, in fin dei conti non tutti cercano di diventare ricchi, c’è la passione, la voglia di creare qualcosa di umanamente bello (almeno io la vedo così) ma per forza di cose per continuare a farlo deve essere sostenibile economicamente. Chi opta per questa (per me molto bella) strada può permettersi di non scendere a compromessi, ma allora a mio modo di vedere perchè stare a lottare per imporre agli attori della filiera queste regole, in fin dei conti meglio concentrarsi sul proprio sogno e farlo crescere (il tempo è poco e rischi di demolire quello che hai costruito), ergo chissenefrega del prezzo sorgente o dei costi di distribuzione “tout-court” e delle logiche distributive, segui la tua strada! Ma questa regola non può applicarsi alla società tutta, è li che io trovo una resistenza ideologica, chi ha deciso invece che vuole percorrere la strada della distribuzione non può pensare, umilmente parlando, di cambiare il mondo per farsi conoscere. Secondo me prima si conquista uno spazio e poi dopo che hai guadagnato autorevolezza e dimostri si poter stare al tavolo (mi rivolgo al produttore) allora provi ad introdurre delle modifiche. Ecco, proprio perchè ci sono gradazioni di grigio, secondo me andrebbe indirizzato a quelle gradazioni che meglio si abbinano con esso. Il mercato, visto da lontano è solo un concetto, in realtà non esiste: esistono persone. Almeno questa è la mia esperienza…

  • Filippo Ronco

    Ma infatti qui nessuno vuole imporre nulla a nessuno.
    Ho semplicemente indicato la dignità del mio pensiero e dei piccoli che ci credono, poi ci mancherebbe, ognuno per la sua strada naturalmente.

    Fil.

  • Tomaso

    Scusa Bacca, per rientrare in tema, visto che siamo potentemente OT, in america mi risulta sia in corso una lotta tra distributori e produttori sulla vendita diretta, la cd. H.R. 5034 (x chi vuole approfondire e restare aggiornato http://www.stophr5034.org/). Ecco, dato il cd. three tier sistem (chi produce vende al distributore che a sua volta vende al dettagliante che a sua volta vende al privato), che sostanzialmente sancisce lo strapotere dei distributori. Idem per gli importatori, perchè per un’azienda non è possibile importare direttamente vino in USA, deve per forza passare per un importatore. Sarebbe bello, Marco non so se hai info, sapere come girano le marginalità distributive in altri paesi. Italia inclusa 🙂
    Ciao
    Tom

  • gianpaolo

    In Italia il margine del distributore di vino di qualità va dal 30 al 35%. Questo margine deve essere ricavato dal prezzo del vino, quindi chi vende il proprio vino direttamente al settore horeca con propria forza vendita dovra’ fare uno sconto del 30-35% quando vende ad un distributore, che a sua volta ha una forza vendita da pagare ecc.
    Questo mi fa dire che il costo commerciale di vendita di un vino e’ circa 1/3 del suo prezzo di listino per il settore Horeca.
    Piu’ o meno quasi tutti gli intervenuti sanno qual’e’ la mia posizione verso il prezzo sorgente, ed è piu’ o meno quella di Baccaglio: il prezzo sorgente è il prezzo che viene pagato dal consumatore finale per quel certo tipo di prodotto. Quando si pensa al prezzo di un vino si pensa a questo, ovvero a quanto costera’ quel vino dove esso viene venduto tipicamente, nel mio caso l’enoteca, per altri puo’ essere la GDO, per altri ancora la vendita diretta. Il prezzo che prevale in uno di questi settori è il prezzo sorgente. E’ facile fare un esempio: se ho un vino che vendo per l’80% in azienda a 6 euro, risulterà difficile che un enoteca lo acquisti a 6 euro dovendolo poi rivendere a 9. Lo acquisterà solo se lo potra’ rivendere a quello che sara’ il suo prezzo prevalente, ovvero 6 euro, e per fare cio’ pretendera’ di comprarlo 4 o 4,5 (iva inclusa tanto per rimanere omogenei).
    Se il mio vino costa 9 euro in enoteca, e quello è il suo canale prevalente, costera’ 9 euro in azienda, salvo sconti dovuti alla quantita’, per esempio quando uno ne compra a cartoni (ma e’ probabile che uno sconto simile uno lo possa avere anche in enoteca, se lo compra a cartoni). Tanto piu’ che azienda o negozio sempre vendita al dettaglio e’, che comporta personale, spazi, tempo per le degustazioni, ecc. ecc.

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